La giovane senegalese Mbayang Diop rischia la decapitazione in Arabia Saudita: l’inferno delle domestiche senegalesi nei paesi del Golfo

La giovane senegalese Mbayang Diop rischia la decapitazione in Arabia Saudita: l’inferno delle domestiche senegalesi nei paesi del Golfo

La notizia della condanna a morte in Arabia Saudita della 22enne senegalese Mbayang Diop è solo la punta dell’iceberg di una tragedia che si consuma silenziosamente e quotidianamente nel calvario delle domestiche senegalesi e africane all’estero e nei paesi arabi.

Mbayang DiopLa notizia, del 13 luglio, ha scosso tutto il Senegal. Sulla stampa locale, il sindaco Bara Gaye di Yeumbeul Sud, località di provenienza di Mbayang Diop, ha lanciato un appello al Presidente della Repubblica senegalese Macky Sall affinché intervenga presso le autorità saudite per ottenere l’estradizione della ragazza. Tra le note del testo, diffuso anche su Facebook, Gaye descrive una giovane «troppo timida, ben educata, non violenta e incapace di fare del male a una mosca». Parole che si ascoltano spesso in casi simili da parte di chi conosce personalmente gli autori dei più brutali omicidi. E che spingono la gente a chiedersi cosa sia potuto succedere per farle scattare una reazione del genere. Probabilmente, Mbayang era un mostro travestita da una giovane e innocua madre. Molto più credibilmente, invece, stava ingoiando a sopportando tanto, troppo. Un’ipotesi la dà suo fratello, sulle pagine del quotidiano Observateur: «Mia sorella deve essere stata terribilmente violentata per arrivare a pugnalare la moglie del suo datore di lavoro», mentre spiega di come le poche volte che era aveva sentito la sorella lei piangesse, fino al giorno che le è stato sottratto il telefono. Poi silenzio, fino alla tragedia. Dopo una lite. In cui, probabilmente, Mbayang è stata sorpresa a rubare, o a cercare di scappare: o, come spesso succede, in cui è stata minacciata o accusata dalla moglie del datore di lavoro, già sotto schock dopo aver magari subito la violenza sessuale da parte di quest’ultimo, di averlo sedotto come una “negra prostituta“.

Mbayang è formalmente un’omicida, quindi, ma molto più probabilmente la vittima di questa storia di cronaca nera. Quanto le è successo non è altro che il volto più tragico della sofferenza di tante domestiche senegalesi, ma anche provenienti da altri paesi d’Africa e d’Asia, soprattutto filippine, che cadono nella trappola dello sfruttamento lavorativo e spesso sessuale di famiglie dei paesi del golfo o di altri paesi arabi che, in alcuni casi, “acquistano” le ragazze come fossero schiave, in questo caso grazie a mediatori senegalesi in Senegal.

Che si tratti di agenzie fittizie improvvisate o vere e proprie reti criminali, il copione è sempre lo stesso: spinte dalla volontà di trovare lavoro per aiutare la famiglia o incitate proprio da queste ultime, tante ragazze accettano le proposte di un lavoro ben remunerativo in Arabia Saudita, Kuwait, ma anche Libano e Marocco. Il mediatore si occupa di far loro firmare un contratto falso, far loro i documenti, far loro ottenere il visto e acquistare un biglietto d’aereo, ma una volta che le ragazze saranno partite, il mediatore senegalese scomparirà e diventerà irrintracciabile. A questo punto per queste donne sarà spesso l’inizio dell’inferno: passeranno le loro giornate rinchiuse in casa a lavorare dal mattino a notte, a dormire in un sottoscala e mangiare gli avanzi del pasto della famiglia. Vedranno sottrarsi dal datore di lavoro i documenti e spesso il telefono; non riceveranno lo stipendio promesso o questo non corrisponderà a quanto era stato loro dichiarato; alcune, scopriranno di essere state acquistate dai loro “padroni”.
Senza poter uscire così di casa, si ritroveranno a lavorare e a essere trattate come serve, e a subire spesso gli abusi sessuali di uno o più uomini della famiglia. Se proveranno a scappare, prive di soldi e documenti, finiranno poi in prigione o anche uccise, nel silenzio di tutti. Tanto, è una black woman. Se ovviamente a essere ammazzata, chissà in seguito a quale mostruosa circostanza, è la padrona di casa, la pena di morte attenderà la disgraziata autrice dell’omicidio. Nonostante siano sempre più frequenti episodi del genere, in Senegal le ragazze continuano a partire. I  mediatori senegalesi colpevoli spesso non vengono denunciati dalle loro vittime al loro ritorno in Senegal, perchè si trova una soluzione alla buona o per mancanza di fiducia nella Giustizia, in un paese dove l’impunità regna ancora sovrana. Ecco allora che le più coraggiose trovano nei media, alla radio o alla Tv locale, il palcoscenico della loro denuncia.

Quanto descritto sopra è quanto posso denunciare dopo aver raccolto testimonianze dirette e indirette di senegalesi che hanno effettuato il viaggio e che sono riuscite a rimpatriare. Anche se meno di altri paesi d’Africa, anche il Senegal è considerato ufficialmente Paese di origine, transito e destinazione della tratta di esseri umani, soprattutto donne e bambini. Per ora posso parlarne solo sommariamente, in quanto, a fronte di un buco di ricerche sul fenomeno della tratta femminile nel paese (la maggior parte delle ricerche e degli interventi in Senegal riguardano lo sfruttamento infantile dei talibé, gli allievi delle scuole coraniche) sto investigando proprio su questo da qualche mese nel quadro della mia partecipazione alla ricerca dell’Università Bicocca  “Shadow of slavery in West Africa and Beyond. A Historical Anthropology“, diretta dalla prof. Alice Bellagamba e finanziata dall’Unione Europea.

Prima di passare alla ricerca vera e propria, focalizzandomi sullo sfruttamento delle lavoratrici domestiche senegalesi all’estero, ero stata incaricata di effettuare un report sulla realtà delle lavoratrici domestiche in Senegal, in tanti casi non certo più rosea. A partire da questo lavoro, avevo poi pubblicato un reportage sulla rivista Nigrizia che vi propongo di seguito per comprendere meglio il fenomeno, complesso e dalle mille sfaccettature: un argomento che lega temi quale le migrazioni, lo sfruttamento lavorativo, lo sfruttamento sessuale, dinamiche culturali e sociali.

Leggi il reportage su Nigrizia: Schiave a casa loro

domesticheNon vi sciocchi se ancora oggi si utilizzi il termine “schiavitù”, anche se lo affianchiamo al termine “moderna”: gli schiavi esistono tuttora, che sia in alcuni paesi sotto forma di veri e propri servi di proprietà del “padrone”, che sia invece inteso come estremo sfruttamento lavorativo. Nel dibattito internazionale odierno sul tema, la tratta di esseri umani è considerata la versione contemporanea della tratta degli schiavi antica, dove ancor più la donna, nera, subisce una doppia stigmatizzazione: di genere e di razza.

Non si pensi inoltre che il problema tocchi solo paesi considerati “poveri” o “sottosviluppati”: così come la schiavitù antica è esistita trasversalmente in tutte le epoche, società e regioni del mondo (compresi nell’Impero greco e romano, per esempio), così oggi episodi di servitù e di estremo sfruttamento lavorativo appaiono in Occidente come in Oriente, a Sud e a Nord del mondo. Le lavoratrici domestiche, donne invisibili rinchiuse tra le mura di casa, sono tra le vittime più frequenti, invisibili e vulnerabili.

Secondo il global slavery index del 2014, sono 35, 8 milioni gli “schiavi moderni”, che siano questi vittime del traffico sessuale (minorile o meno), del lavoro forzato, del lavoro minorile, della servitù domestica, dell’arruolamento come bambini -soldato. Potete trovare dati e approfondimenti aggiornati sul tema nel rapporto del Dipartimento di Stato americano 2016 sulla tratta pubblicato la settimana scorsa (Trafficking in Persons Report 2016)

Per quanto riguarda i lavoratori domestici, secondo i dati Ilo (Organizzazione Internazionale del Lavoro) del 2013, sono 67, 1 milioni in tutto il mondo, di cui l’80% donne e l’11, 5% migranti.

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