Racconta Abdouhramane Gueye: «Sono l’unico senegalese uscito vivo dalle carceri di Habrè»

Racconta Abdouhramane Gueye: «Sono l’unico senegalese uscito vivo dalle carceri di Habrè»

Insieme a Demba Gaye, Abdouhramane Gueye è stato imprigionato nelle carceri del dittatore ciadiano Hissene Habré. È il solo ad esserne sopravvissuto.

Una volta uscito, Abdouhramane ha vissuto per anni in Senegal nella frustrazione di non essere creduto dai suoi stessi concittadini, prima di unirsi alle altre vittime ciadiane e Human Right Watch nella battaglia legale per far processare Habré. L’ho incontrato a casa sua a Dakar, nel quartiere di Sopprime. Quinta puntata del ciclo sui Protagonisti del caso Habré, all’interno della rubrica Personaggi d’Africa.

 

 Abdouhramane GueyeDal 1983 mi ero installato in Centrafrica, ero commerciante e fabbricante di gioielli in oro e diamanti. Fino al 1987 i militari francesi mi facevano degli ordini. Nel 1987 ho firmato un contratto con un reggimento francese per un ordine di gioielli. Mi hanno dato come al solito un acconto, e entro due mesi avrei dovuto consegnare la merce, prima del loro rientro. Tuttavia un giorno mi hanno chiamato per dirmi che era stato richiesto loro di trasferirsi in Ciad entro 15 giorni. Mi hanno chiesto se una volta finito il lavoro avessi potuto consegnar loro i gioielli in Ciad, sotto la loro protezione. In questa occasione ho conosciuto Demba, gli ho proposto un affare di vendita di gioielli in Ciad, e abbiamo viaggiato insieme su un aereo militare. Al nostro arrivo abbiamo passato la notte nella base militare aerea francese, e, l’indomani, i francesi ci hanno dato tutti i lasciapassare necessari per andare all’aeroporto civile a sbrigare le formalità. Ma appena siamo usciti dalla base francese, un veicolo è venuto verso di noi, e dei militari ci hanno intimato di salire. Poco dopo ci siamo trovati alla Presidenza e alla Dds…io ero tranquillo perché avevamo tutte le autorizzazioni. Appena entrati hanno separato subito me e Demba. Mi hanno fatto entrare in un ufficio e hanno iniziato l’interrogatorio…tra loro parlavano in arabo e non capivo niente. (…) Mi accusavano di essere una spia di Gheddafi. Poi hanno scritto qualcosa su un foglio e mi volevano convincere a firmare, ma io ho rifiutato. A questo punto hanno iniziato a togliere tutti i miei averi. Quando sono rimasto in camicia e pantaloni, ho chiesto notizie del mio compatriota e mi hanno detto che l’avrei rivisto presto. Poi mi han fatto salire su un pick-up e mi hanno portato al “Campo dei martiri”. Hanno aperto una cella, mi hanno fatto entrare, hanno chiuso e se ne sono andati. Là c’erano altri prigionieri, mi hanno chiesto cosa avessi fatto per trovarmi lì. Ho raccontato e poi ho detto che volevo un avvocato. Loro mi hanno risposto: «Monsieur, qui siamo nelle mani di Dio, non ci sono la Giustizia e gli avvocati, questa è la prigione della Dds [Direzione della documentazione e della sicurezza, la polizia repressiva di Habré], è la prigione di Hissene Habrè. Quello che resta da fare è rimanere qui; se muori, ti portano fuori per sotterrarti».
La cella era di circa 3 metri quadrati, ma c’erano quasi una quarantine di persone. Non c’era luce, facevamo i nostri bisogni in un angolo. Per dormire non c’era niente, ti mettevi sul suolo così com’eri. Ci facevano uscire la mattina per prendere dell’acqua e poi alle 17 per il pranzo. Il pranzo consisteva in riso con salsa, ma mi avevano detto di non prendere la salsa perché era quella che uccideva la gente. Quindi prendevo il riso con l’acqua e lo bevevo…facevo una sorta di bouye
[frullato del frutto del baobab, consumato in Senegal].

Come mi hanno liberato? È il presidente del Senegal di allora Abdou Diouf che è intervenuto, si era mosso prima del suo arrivo qui. C’era una conferenza dei paesi del Sahel a cui Abdou Diouf doveva partecipare, e i miei parenti e l’ambasciatore del Senegal, – che aveva saputo del mio arresto ed era già venuto fino a Ndjamena per cercarmi, ma gli avevano detto che non non ero qui, – si erano mobilitati…(…). Mi hanno liberato nel 1988, un anno e mezzo dopo. Ma Demba Gueye non ce l’ha fatta, mi hanno detto che era deceduto in carcere dopo 4 mesi l’arresto.

Una volta tornato in Senegal, ho cercato di incontrare Habrè, che era qui, ma non ci sono mai riuscito.
E come ho fatto a ritrovarmi con le altre vittime e Reed Brody di Human Right Watch? Nel 2000 Hrw aveva scoperto negli archivi della Dds il certificato di morte di Demba Gueye e il certificato della mia liberazione. Mi hanno cercato ovunque in Senegal, ma non mi hanno trovato, e se ne sono andati. Nel 2005 sono tornati perché il Belgio aveva chiesto l’estradizione di Hissene Habré. Preparavano alla Raddho una conferenza stampa, e io ascoltavo la radio. Alioune Tine parlava, e a un certo punto ha detto che l’affare Habrè non implica solo le vittime ciadiane, ma anche senegalesi. E hanno fatto il mio nome, dicendo che mi stavano cercando. Il mattino dopo mi sono recato alla Raddho. È stata una grande sorpresa quando mi hanno visto, e si sono subito messi a lavorare al mio dossier. Sono entrato nell’associazione delle vittime e sono andato anche in Ciad.

All’epoca di Wade ho fatto di tutto per contribuire a far processare Habrè, ma non c’è stato niente da fare.
All’inizio la gente pensava che dicessi il falso: io rispondevo che avevo anche dei testimoni, come i funzionari che mi hanno liberato, e Abdou Diouf stesso: potevo mai mentire a nome di un ex capo di stato, tra l’altro ancora vivo?
Ma io non mi preoccupavo, perché dicevo la verità ed ero sicuro che prima o poi sarebbe uscita allo scoperto. Quando mi dicevano di essere una vittima fabbricata non me la prendevo, quando sei nella verità non hai paura. Tutto quello che mi auguravo era di ottenere un giorno giustizia e poter dire al mondo intero quello che è successo veramente.

 

Per ascoltare la testimonianza integrale originale, guarda il video:

 

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