Reed Brody, consulente di Human Right Watch: «il mio impegno mi ha valso il soprannome di “cacciatore di dittatori”»

Reed Brody, consulente di Human Right Watch: «il mio impegno mi ha valso il soprannome di “cacciatore di dittatori”»

La stampa l’ha ben presto battezzato “il cacciatore dei dittatori”: si tratta dell’avvocato statunitense Reed Brody, che ha sostenuto l’associazione delle vittime di Hissene Habré per conto di Human Right Watch nella lunga battaglia legale che ha portato a processare oggi a Dakar il dittatore ciadiano.

Da Pinochet a Habré. Protagonista del film “The Dictator Hunter”  insieme a Souleymane Guengueng, Reed Brody inizia fin da giovane un percorso di militanza a favore dei diritti civili e a sostegno delle vittime dei poteri forti, che lo porta ben presto a lottare contro l’impunità dei dittatori. Dal 1999 sostiene la lotta delle vittime di Habré. Incontrato al Tribunale a Dakar durante una delle sedute del processo alla fine del 2015, è proprio a lui a chiudere il ciclo dei protagonisti del caso di Hissene Habré, iniziato con il lancio stesso di questo blog. Attendiamo tutti ora il verdetto sulla sorte del dittatore, che sarà ben presto annunciato dalle Camere Africane Straordinarie a Dakar.

Scopri di più nello Speciale Hissene Habré.  

Reed Brody“Sono nato a New York da un padre ebreo sopravvissuto ai campi di lavoro forzato dell’Europa dell’est e da una madre insegnante progressista. Sono nato in un quartiere nero a New York, eravamo tra le poche famiglie di ceto medio, di bianchi, nel quartiere e a scuola. Ho iniziato ben presto a militare per la giustizia sociale, contro la Guerra in Vietnam, per i diritti civili, (…). Ho cominciato a lavorare nell’ambito dei diritti dell’uomo nel 1984 in Nicaragua, dove sono andato per conoscere da vicino la rivoluzione Sandinista. Lì ho scoperto le violenze commesse contro i civili dai Contras, i controrivoluzionari dei sandinisti, sostenuti dagli Usa. La gente mi chiedeva se il nostro governo e il popolo americano fossero a conoscenza di quello che succedeva lì, mi sono commosso, ho sentito su di me una grande responsabilità e ho preso l’impegno di parlarne al mio ritorno negli Usa. Lavoravo come sostituto procuratore dello Stato di New York, ho deciso di rinunciare a quel posto, tornare in Nicaragua per documentare quello che succedeva e raccogliere le testimonianze. L’ho fatto per cinque mesi, e al mio ritorno ho pubblicato un report che dettagliava i massacri e le violenze che è uscito in copertina al New York Times, in un’epoca in cui il sostegno degli Usa ai Contras era al centro del dibattito nel paese. Il presidente Reagan stesso mi ha accusato di essere stato pagato dai sandinisti. Ma alla fine il Congresso ha tagliato i finanziamenti ai Contras. (…)

Dopo aver lavorato a Ginevra per la Commissione Internazionale dei giuristi accanto agli avvocati perseguitati a causa del loro impegno, aver diretto una Ong a Washington e aver condotto diverse missioni per l’Onu, ho iniziato a lavorare nelle organizzazioni di difesa dei diritti dell’uomo, come Amnesty International, dirigendo missioni in diversi paesi. È nel 1998 che sono entrato a Human Right Watch, un anno fondamentale per la giustizia internazionale: è nata a Roma la Corte Penale Internazionale e Pinochet è stato arrestato a Londra. Questi due eventi hanno marcato i miei ultimi 17 anni di lavoro. Ho lavorato a nome di Hrw per difendere l’arresto di Pinochet a Londra, dopo che lui l’aveva contestato davanti alla Camera dei Lordes. Quando finalmente è stato dichiarato che Pinochet poteva essere arrestato ovunque, nonostante il suo status di ex Capo di stato, ci siamo detti che avevamo uno strumento nella Giustizia internazionale per aiutare le vittime a tradurre davanti alla giustizia anche i tiranni e torturatori che sembravano al di sopra della giustizia. È stato in quel momento che sono stato contattato da alcuni attivisti ciadiani che lavoravano al caso di Hissene Habrè. I dittatori non li porti così facilmente davanti a un tribunale, bisogna creare le condizioni politiche, ed è difficile farlo. Con Menghistu in Etiopia che vive ora in Zimbabwe sotto la protezione di Robert Mugabe, quando era andato in Sudafrica per farsi curare, noi con altre Ong sudafricane avevamo subito sporto denuncia, ma il governo sudafricano aveva preferito farlo partire. Sono stato contattato poi da alcune comunità asiatiche, che erano state espulse dall’Uganda da Idi Amin. Viveva in esilio in Arabia Saudita, e quando abbiamo cercato anche con lui di fare qualcosa, l’ambasciatore saudita a Ginevra mi ha detto che non capivamo il senso dell’ospitalità beduina…voilà, Idi Amin è stato ben protetto fino al giorno della sua morte (…). Ci siamo resi conto che non era dunque cosa facile, che bisogna creare le condizioni politiche prima per far catturare una persona e poi farla giudicare. (…).
Quello che ci interessava era che nel caso Habrè c’erano crimini gravi di cui lui era accusato – si parlava di 40.000 morti – e del fatto soprattutto che si trovasse in Senegal. Nei casi Pinochet e altri si diceva che era sempre l’Occidente che giudicava dei latini o degli africani, ma lì c’era il Senegal, che aveva ratificato tutte le convenzioni all’avanguardia della Giustizia Internazionale: se questo paese avesse accettato di processarlo, la giustizia internazionale si sarebbe mostrata veramente universale. Ho inviato così due stagiste presso l’associazione delle vittime in Ciad che aveva già dei dossier. E abbiamo creato una coalizione di ciadiani e senegalesi, e nel 2000 le vittime ciadiane hanno sporto denuncia qui a Dakar…(…)

Per me la cosa più importante di questo processo è il protagonismo delle vittime, che possono vantarsi di aver tradotto davanti alla giustizia il proprio dittatore. Questo rende il caso ben diverso da quelli pilotati dal Consiglio di sicurezza dell’Onu o dal procuratore degli Stati Uniti. Sono veramente stati Souleymane Guengueng, che dal fondo della sua cella ha giurato che se fosse uscito vivo avrebbe lavorato per la giustizia e lo ha fatto; Zakaria Fadoul, professore che non ha mai accettato; Clement Abaifouta, “le fossayeur”, che era obbligato a seppellire i suoi compagni detenuti e che ora è il presidente dell’associazione. Questo motiva le altre vittime o militanti di tutto il mondo: mentre chiunque può essere Souleymane Guengueng, non tutti possono essere il procuratore della Cpi.

Penso che la repressione su Hissene Habré è stata nel silenzio dei mezzi di comunicazione. C’era solo Amnesty che aveva fatto dei rapporti su Hissene Habré. Ma, a differenza di altri tiranni che hanno attuato lo stesso tipo di atrocità, lui è molto meno conosciuto, rispetto a Idy Amin per esempio, o a Menghistu, o a chi lo fa attualmente. A quell’epoca non era un mondo interconnesso, il Ciad era un paese isolato tra il Mali, la Repubblica Centrafricana e la Libia. Sfortunatamente, quello che il governo di Hissene Habré ha in comune con altri governi repressivi dell’epoca era che era sostenuto dagli Stati Uniti. L’arrivo di Hissene Habré al potere è la prima operazione clandestina dell’amministrazione Reagan. È anche la Francia… il Ciad fa parte della “riserva” francese, e infatti ci sono state discussion tra Usa e Francia, perchè gli Usa sono intervenuti tanto in Ciad a sostegno di Habré per fermare Gheddafi e per salvaguardare i propri interessi. Devo dire che l’amministrazione Obama ha sostenuto la lotta delle vittime e le Camere Africane Straordinarie, quindi recupera un po’, volta la pagina. Questo tuttavia non giustifica tutto quello che gli Usa hanno fatto in passato, non se ne parla, secondo noi gli Usa dovrebbero presentare delle scuse.

Ho fatto tante missioni in Ciad, ma è nel 2001 che abbiamo ritrovato gli archivi della polizia politica, la Dds, che dettaglia come era organizzata la repressione e che sono stati usati nel processo. Non siamo stati noi i primi a trovarli, ma erano stati abbandonati, e noi li abbiamo raccolti, classificati e messi a disposizione della Giustizia. Tra i documenti ce n’è uno in particolare, che era stato mandato a Habré e che domandava il trasferimento in ospedale di alcuni prigionieri di Guerra della Croce Rossa. C’è un manoscritto che dice che non nessun prigioniero avrebbe lasciato la prigione salvo in caso di decesso. Le Cae hanno sottomesso il manoscritto all’esame di un grafologo, che ha confermato che la firma apparteneva effettivamente a Hissene Habré.

Per ascoltare la testimonianza integrale originale, guarda il video:

 

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