Attentato terroristico islamista in Costa D’Avorio: un punto di vista africano
Terzo attentato terroristico di gruppi islamisti in Africa occidentale in 5 mesi. Come la questione è vissuta in Senegal? Quale la lettura degli intellettuali africani?
A dire la verità per questo lunedì mattina avevo programmato un altro articolo su Afric(a)live. È triste, alla terza settimana di vita del blog, dover già cambiare programma all’ultimo minuto per un fatto di cronaca così grave e orribile.
Dopo il Mali a novembre e il Burkina Faso a gennaio, ecco ora essere colpita per la prima volta la Costa d’Avorio. Il copione macabro purtroppo si ripete, perchè per la quarta volta, se si conta la Tunisia a luglio scorso, gli obiettivi sono luoghi turistici e frequentati da stranieri: e non perchè si voglia colpire gli occidentali, ma per cercare di mettere in ginocchio le economie locali.
Questa volta, però, c’è una novità, e cioé che i jihadisti hanno colpito un paese della sub-regione a maggioranza cristiana. Non dimentichiamoci, infatti, che mentre a novembre in Europa e nel mondo i media si concentravano a raccontare tutti i risvolti dello straziante attentato di Parigi, nel frattempo i gruppi islamisti continuavano i loro frequenti attentati in Africa centro-occidentale: il 18 a Yola in Nigeria (30 morti), il 20 a Bamako in Mali (20 morti), il 21 a Fotokol in Camerun, dove il quinto attentato in 3 mesi aveva causato 5 morti. In questa zona, ormai, l’orrore di morire a causa di ragazzine kamikaze che si fanno esplodere in un mercato, sta diventando cosa sempre diffusa. Secondo la rivista maghrebina Jeuneafrique, nei vicini Camerun, Ciad e Niger, gli attacchi del gruppo islamista nigeriano Boko Haram (affiliato a Daesh) hanno causato finora la morte di 17.000 vittime e lo spostamento di 2,6 milioni di persone. E come tutto quello che raggiunge un certo grado di “routine” o che succede a vittime di parti del mondo lontane da noi o di “serie B”, la notizia non fa più notizia. Ebbene, bisogna che si sappia che gran parte delle vittime di questo terrorismo sono non solo africane, ma musulmane. Quegli stessi musulmani che durante un’imboscata del gruppo islamista somalo Al-Shabaab (affiliato ad Al-Qaida) a dicembre in Kenya hanno difeso i fratelli cristiani rifiutando di dividersi in due gruppi in funzione della fede religiosa di appartenenza.
Che l’attentato di ieri si sia verificato a Grand-Bassam, a una quarantina di chilometri dalla capitale ivoriana Abidjan, che il bilancio ufficiale sia di 16 morti (14 civili e 2 militari) e 22 feriti, e che l’attacco sia stato rivendicato da Al Qaida nel Maghreb Islamico (Aqmi), sono informazioni che ormai sapete già.
Un primo valore aggiunto che posso darvi io, può essere di spiegarvi come sia vissuta la questione in terra africana, per esempio in Senegal. Dove nel pomeriggio di ieri chi ascoltava la radio si è sentito interrompere la cronaca di un combattimento di lotta per una comunicazione urgente che annunciava allarme e terrore in un paese vicino; lo sgomento e il dolore solidale per un paese fratello, – la cui comunità senegalese tra l’altro è tra le più numerose nel continente – ha lasciato ben presto dentro ciascuno il posto a una domanda che nessuno osa pronunciare ad alta voce: i prossimi saremo noi?
Se in Senegal il ritornello comune ogni volta che qualcosa di grave si verifica intorno alle sue frontiere (come l’ebola dell’anno scorso) è che il paese sarà risparmiato per una sorta di protezione mistica, e grazie a un Islam organizzato in confraternite che ha sempre predicato il valore della tolleranza e della pace, è anche vero che il paese è all’occhiello della Francophonie, e che il Capo di Stato senegalese Macky Sall, presidente in carica della Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale (Cedeao), ha fin dall’inizio preso pubblicamente posizioni molto chiare contro il terrorismo islamista. Insomma, i provvedimenti del governo e i titoli della stampa locale ogni tanto un certo allarmismo lo crea. «Dobbiamo avere il coraggio di combattere e non accettare altra forma di Islam che non sia quello tollerante che noi conosciamo», aveva dichiarato Macky Sall all’apertura del Forum della pace e della sicurezza, che si era tenuto il 9 e 10 novembre a Dakar. Una decina di giorni dopo, l’Assemblea Nazionale senegalese ha votato il prezzo della lotta contro il terrorismo, equivalente a un budget di 13,5 miliardi di Fcfa (quasi 9 milioni di euro). Da allora, è stato tutto un alternarsi sulle prime pagine dei giornali di articoli di cronaca o di polemiche sugli arresti di individui sospettati di aver legami con gruppi islamisti terroristi (come l’imam Alioune Ndao a Kaolack), sul dibattito riguardo all’eventuale divieto del velo integrale nel paese, portato comunque da poche donne per libera scelta, per motivi di sicurezza (in seguito agli accadimenti in Nigeria, Camerun e Ciad, dove uomini e donne kamikaze si sono fatti saltare in aria dopo aver nascosto l’esplosivo proprio sotto la veste) e sul dispiegamento di forze militari nelle zone di confine con il Mali e negli hotel a Dakar. A febbraio, le copertine dei quotidiani senegalesi trattavano un’inchiesta sui jihadisti senegalesi tra le fila di Daesh a Syrte, in Libia: sarebbero una trentina quelli pronti prima o poi a portare la Jihad anche in Senegal, di cui circa la metà li si ritrova a fare propaganda su Facebook.
Ieri, in seguito all’attentato in Costa D’Avorio, Macky Sall ha riconfermato il suo impegno al«rafforzamento della cooperazione sub-regionale, regionale e internazionale nella lotta comune contro il terrorismo e l’estremismo violento in tutte le loro forme e manifestazioni».
Il Senegal ospita dal 2012 all’Università Gaston Berger di S.Louis il Centro di Studio delle religioni (Cer), secondo il professor Bakari Sambe l’unico istituto in Africa a studiare le religioni non come teologie ma come scienze sociali, e il primo ad aver creato il Master in “Scienze religiose in Africa”. Bakari Samb coordina presso il Cer l’”Osservatorio sui radicalismi e i conflitti religiosi in Africa” (Orcra), e oggi sta lavorando alla creazione dell’”Istituto Timbuctu”, che si occuperà della valorizzazione del patrimonio islamico africano tollerante, della prevenzione alla radicalizzazione dei giovani e del rafforzamento delle capacità di tutti gli attori che lavorano sul terrorismo.
Come mio ulteriore apporto, dunque, vi propongo di seguito l’intervista che ho realizzato a Bakari Samb sul fenomeno del terrorismo in Africa (pubblicata a gennaio su Nigrizia), proprio per dare voce a un intellettuale africano e offrirvi un’analisi autoctona sulla questione.