Condanna a Hissene Habré, una vittoria per l’Africa e per i diritti delle donne: il commento
La condanna a Dakar ad Hissene Habré del 30 maggio ha un significato importante: per le vittime del suo regime, per l’Africa e per le donne di tutto il mondo. Ora, dopo avervi narrato la cronaca degli avvenimenti, permettetemi qualche riflessione.
Lunedì è stato l’epilogo di una lunga storia. Di una di quelle tragiche, che per ora sono scritte con cifre di orrore nelle pagine di alcuni dossier, ma che da domani potranno comparire, grazie a questo verdetto (leggi Il dittatore ed ex presidente Habré condannato all’ergastolo e Habré condannato, giustizia è fatta), sui libri di storia.
Tanto è stato già detto su questo processo, in bene e in male. E avendone seguito gran parte, di cui già si è parlato su Africalive (vai allo speciale Processo Hissene Habré), è arrivato ora il momento di fare un po’ di chiarezza, sull’importanza di questa condanna e su alcuni punti critici di tutta la vicenda: come il fatto, che va detto e denunciato, che pure l’attuale presidente del Ciad Idriss Deby Itno avrebbe dovuto comparire tra gli accusati. Ma procediamo per ordine.
Parlare di un lieto fine alla questione di Hissene Habré è legittimo da diversi punti di vista. La condanna all’ergastolo per crimini contro l’umanità e tortura di colui che è stato soprannominato il “Pinochet Africano”, può considerarsi un trionfo per diversi attori. Lo è prima di tutto per le vittime, che ieri si sono trasformate in eroi ed eroine: perché, come già fatto presente su questo blog al punto da dedicargli il primo ciclo della rubrica “Personaggi d’Africa”, è stata la loro forza, tenacia e sete di giustizia che hanno trascinato dopo 26 anni di battaglie il responsabile delle loro sofferenze davanti a un tribunale. Fino a sottoporlo a una condanna che tanti dubitavano potesse realmente arrivare.
Questo processo può considerarsi una vittoria anche per l’Africa stessa, per diversi aspetti. Se già all’inizio il processo è stato presentato dai media occidentali e da parte di quelli africani in termini trionfalistici come una tappa importante nella lotta contro l’impunità sul continente, poiché per la prima volta un capo di stato africano è stato giudicato in Africa da un tribunale africano internazionale, la condanna ad Habré ha confermato che il continente «sta marciando lentamente, ma sicuramente e ostinatamente, verso l’eradicazione dell’impunità», per utilizzare le parole pronunciate da uno degli avvocati delle vittime, il senegalese Assane Dioma Ndiaye.
Oltre a questa manifesta volontà, quello su cui molti avvocati a attivisti dei diritti umani insistono è stato il fatto che l’esperienza delle Camere Africane Straordinarie (Cae) (leggi Senegal, si apre il processo a Habré) mostra che gli africani si sono finalmente dotati di un expertise, in termini di competenze di giudici e avvocati, nell’ambito giurisdizionale internazionale. Se anche ora è arrivato il momento di sciogliere le Cae, arrivate al termine della loro missione, questo strumento giuridico potrà essere preso come modello e replicato. In questo senso questa condanna esemplare risulta essere un avvertimento per i leader africani (come di tutto il mondo, non dimentichiamolo), che continuano a commettere violazioni della democrazia e dei diritti umani sul proprio popolo; ma, allo stesso tempo, il verdetto ad Habré rappresenta anche un incoraggiamento alle vittime di tali abusi di potere e soprusi a cercare di organizzarsi per poter fare appello a questi nuovi strumenti giuridici sul continente. «I cittadini africani diventano sempre più esigenti nei confronti dei loro dirigenti. Iniziano a pretendere che questi rendano conto davanti alla Giustizia, che quando commettono crimini contro l’umanità non possano farla franca», ha dichiarato dopo il verdetto al Palazzo di Giustizia di Dakar Aboubacar Mbodj, il segretario generale della Raddho, associazione di difesa dei diritti dell’uomo africana. Probabilmente, i cittadini africani sono sempre stati “esigenti”: ma, finora, non c’erano le condizioni politiche per poter far valere i propri diritti. O è comunque difficile farlo quando si è ancora sotto tirannia.
Un altro punto che va sottolineato, è che questo processo spazza via la retorica di coloro, spesso africani, che considerano la giustizia internazionale uno strumento dei bianchi per giudicare i neri, come anche di quegli occidentali che pensano invece che gli africani non siano in grado di giudicarsi da soli.
Al contrario, come molti hanno sottolineato, i giudici africani hanno mostrato ieri non solo di poterlo fare, ma hanno introdotto una novità nella giurisprudenza internazionale includendo il crimine di violenza sessuale nella categoria di “crimine contro l’umanità” e “tortura”; ugualmente, è stata anche la prima volta nel mondo che un capo di stato sia condannato per violenza sessuale. In questo senso, è stata l’avvocatessa Jacqueline Moudeina (leggi Jacqueline Moudeina, avvocatessa e attivista dei diritti umani di donne e bambini in Ciad) a definire questa decisione come “una vittoria per i diritti delle donne“.
Detto tutto questo, capisco e condivido l’obiezione di coloro che hanno criticato il fatto che davanti alla barra degli accusati avrebbe dovuto esserci anche l’attuale presidente del Ciad Idriss Deby Itno: fino al 1985 era stato Comandante delle forze armate di Habré durante il periodo noto come “settembre nero”, caratterizzato dall’ondata di repressione nel sud del paese, per poi ricoprire la carica di consigliere alla Difesa, fuggire nel 1989 e rovesciare Habré nel 1990. Sulle malefatte dell’autoritario regime instaurato da Deby, Africalive ne ha già parlato recentemente (leggi Urgente, repressione e arresti in Ciad e I movimenti in lotta per la democrazia in Ciad): sicuramente, Deby appare sulla lista nera di quei leader africani che oggi dovrebbero fare attenzione a come tratta il proprio popolo, il quale purtroppo per ora è impotente di fronte a colui che è riuscito a farsi dipingere dalla comunità internazionale come il paladino della lotta in Africa contro il terrorismo di Boko Haram.
Tuttavia, nonostante condivida lo scetticismo di questa contraddizione del processo, credo che bisogna andare più in fondo alla questione per comprenderla. Le Cae erano state create effettivamente non per perseguire Habré, (i cui diritti tra l’altro alla difesa e a un processo equo sono stati rispettati nonostante lui stesso non volesse saperne non considerando legittimo il tribunale), ma per giudicare i crimini commessi durante il suo regime. Che vuol dire che, a parte lui, tutti erano perseguibili: persino un capo di stato in carica, mi è stato spiegato. Nei fatti, se Deby non è comparso tra gli accusati, è stato per mancanza di querelanti e denunce verso di lui. Tutta l’equipe di lavoro si è basata su quanto chiesto dalle vittime che le hanno contattate, che sono state torturate sotto la responsabilità di Habré e che hanno sporto denuncia contro di lui e contro altri agenti della Dds (la polizia da lui creata e incaricata della repressione). Se ci fossero state denunce contro Deby, affermano gli avvocati della parte civile, non lo avrebbero risparmiato.
Ora, se da una parte è ovvio che solo un pazzo suicida denuncerebbe qualcuno che è al potere nel proprio paese e che non sta esitando ancora oggi ad arrestare o far sparire coloro che levano voci dissidenti, tecnicamente la spiegazione degli avvocati non fa una grinza. La cosa fa emergere le difficoltà e i limiti della giustizia internazionale, che resta comunque inserita in un contesto di geopolitica internazionale in cui spesso è difficile combattere per la verità e giustizia: come disse Reed Brody nella sua intervista (leggi Reed Brody, consulente di Human Right Watch: il mio impegno mi ha valso il soprannome di cacciatore dei dittatori»), non è facile riuscire a condannare un capo di stato, «bisogna creare le condizioni politiche per poterlo fare».
Cosciente di tutto questo, non condivido quindi la posizione di coloro che predicavano di boicottare questo processo: l’attitudine da avere è quella di festeggiare oggi, e di continuare la lotta domani per la giustizia e contro i paradossi creati dagli interessi, nazionali e internazionali che siano, di cui le popolazioni continuano a pagare il doloroso prezzo.
Bisogna celebrare la vittoria oggi, perchè migliaia di vittime, comprese quelle ci hanno già lasciato o che non se la sono sentite di denunciare, hanno avuto il primo grande risarcimento all’atroce violazione dei diritti umani che hanno subito ottenendo giustizia; perchè un uomo che ha commesso degli orrori è stato condannato, (anche se tardi e se la cella in cui finirà non sarà mai come quella in cui faceva rinchiudere le sue vittime, è importante simbolicamente); affinché la condanna sia esemplare a tutti i leader autoritari, ai dittatori e a chiunque osi abusare sessualmente delle donne. L’autore di questi crimini, ovunque sia nel mondo e qualsiasi carica abbia ricoperto, non scappa alla Giustizia: e questo messaggio è passato.
Fatto questo, è doveroso continuare la lotta contro l’impunità in tutto il mondo e in Africa, affinché anch’essa possa dotarsi di una giurisdizione penale internazionale permanente.
Alle vittime di Hissene Habré e alle donne, tra loro, che hanno perso padri, fratelli, mariti, figli e soprattutto che hanno subito violenza sessuale, che hanno trovato il coraggio di denunciarle e venire a Dakar a testimoniare, vincendo i tabù culturali e svelando accadimenti dolorosi tenuti segreti dentro di sè per anni, è dedicata la rubrica Voci d’Africa e la Foto di questa settimana. Così come anche alle donne di tutto il mondo.
Traduzione Voci d’Africa
Jacqueline Moudeina durante la conferenza stampa dopo il verdetto, il 30 maggio 2016 a Dakar.
- Jacqueline Moudeina, verdetto Habré
L’Africa ha appena giudicato l’Africa. Questa condanna è stato un messaggio forte per tutti i tiranni del mondo.
Tutta l’equipe di avvocati e di attivisti che ha sostenuto le vittime nella loro lotta, tengono a felicitarsi del coraggio di cui queste hanno fatto prova; in particolare, di quello delle donne che sono venute a testimoniare. Queste hanno osato affrontare un tabù che è durato troppo e che deve finire. Una delle cose più difficili oggi per una donna, dopo essere stata violentata, è di dire “sono stata violentata”. Le donne che sono state schiavizzate hanno condiviso fatti che si erano tenute dentro per 25 anni. Hissene Habrè è stato condannato per crimine sessuale: è una vittoria per i diritti delle donne. Le violenze sessuali possono ormai costituire dei crimini internazionali.