Vendita di schiavi in Libia: il grido di indignazione della società civile africana
Tra l’indignazione generale sui migranti venduti come schiavi in Libia, anche artisti, associazioni e giornalisti africani dicono la loro. E si scagliano contro i propri dirigenti.
In questi ultimi giorni sono stati in tanti in tutto il mondo ad aver detto e scritto che gli orrori subiti dai migranti in Libia fossero già noti a governi, istituzioni e parte della società civile, denunciati da organizzazioni internazionali di rilievo, quali Onu e Oim (Organizzazione Internazionale delle Migrazioni) e dalla stampa internazionale. All’ondata di sdegno planetaria seguita al video della Cnn che mostra una vendita all’asta di migranti africani, si unisce quella di quanti, per anni e fino a pochi mesi fa, avevano parlato non solo di quanto accadeva sul suolo libico, ma anche dei soprusi subiti dai migranti nel percorso terrestre attraverso altri paesi della fascia saheliana prima di arrivarci, in Libia. Già circa dieci anni fa, mi ricordo io stessa di inchieste italiane, come quella documentata per esempio da Fabrizio Gatti (che ne pubblicò il libro, Bilal), di migranti derubati, picchiati, stuprati, abbandonati nel nulla, in confini remoti e terre dimenticate; di persone bloccate in oasi del deserto, come a Agadez in Mali, crocevia di rotte migratorie, privati di soldi, telefoni e documenti, costretti a vendersi loro stessi come schiavi per avere un po’ di cibo e un tetto, o per guadagnare, forse dopo anni in quella condizione servile o di prostituzione, la somma minima necessaria per proseguire il viaggio…e arrivare nell’inferno libico. Tra gli altri, in questi ultimi giorni, l’emittente radiofonica francese Rfi ha ricordato i migranti nelle carceri libiche di Gheddafi obbligati a lavorare per i guardiani per riacquistarsi la libertà, o ancora gli eritrei e gli etiopi che scappavano dal loro paese presi in ostaggio in Sinai e torturati al telefono per ottenere un riscatto delle loro famiglie…
In questa reazione di indignazione internazionale, che fanno gli africani, tra l’altro direttamente coinvolti?
Come altri giornali del mondo, anche alcuni di quelli africani gridano allo scandalo poichè la grave situazione in Libia era già nota. Nel farlo, hanno riportato anch’essi nei giorni scorsi alcune testimonianze, come quella di un senegalese a Dakar che pare fosse stato torturato e filmato in Libia e il cui video fosse stato inviato alla famiglia a Dakar in cambio di 400 euro; o quella di un guinenao incarcerato in Libia a cui erano stati chiesti 12 milioni di franchi guineani ( circa 1.100 euro) in cambio della liberazione.
Ma la reazione degli africani – soprattutto nei paesi dell’Africa Occidentale – non si limita al fatto di unirsi al coro mediatico di chi apporta più testimonianze dell’orrore, ma a una profonda presa di coscienza. Le cose da sottolineare in questo senso sono due.
La prima, è che a far sentire la propria voce non sono solo in modo formale governi e istituzioni (uno ad uno, i presidenti di diversi paesi soprattutto dell’Africa Occidentale e dell’Unione Africana – il guinenao Alpha Condé – stanno condannando quanto succede in Libia, chiedendo severamente che sia fatta luce sulla questione, richiamando i propri ambasciatori nel paese e promettendo di parlare della questione al vertice Europa-Africa che si terrà a Abidjan a fine mese), ma soprattutto la società civile: esponenti di associazioni di difesa dei diritti umani, giornalisti, artisti.
Il secondo punto da evidenziare, è che oltre ad additare come co-responsabile l’Europa e le sue severe politiche migratorie, questa stessa società civile africana se la prende ancor più con i propri dirigenti:
«Noi popolo africano, che contiamo su di voi, per proteggerci e difenderci, siamo sorpresi e stupefatti rispetto al silenzio davanti a questa situazione rivoltante, umiliante e inaccettabile che vivono i vostri cittadini, nostri fratelli, sorelle, figli e figlie, venduti come schiavi in Libia…la Libia che è un paese membro dell’Ua. (…) Cosa aspettate a reagire e intervenire? (…) Se il presidente dell’ Ua e della Cedeao ci danno l’ impressione di essersi dimessi, allora la società civile è obbligata a prendersi le proprie responsabilità davanti alla storia».
Così si esprime il celebre cantante ivoriano Alpha Blondie, in un video diffuso il 17 novembre, in cui si rivolge inizialmente ai presidenti dell’Ua e della Cedeao (Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale), e termina chiedendo a tutti gli africani e a chiunque stia a cuore la causa di presidiare le ambasciate libiche nei rispettivi paesi.
A Dakar, è la Confederazione dei Sindacati autonomi del Senegal (Csa) a fare appello alla mobilitazione. Nel comunicato diffuso il 21 novembre, condanna il “silenzio complice” dell’Occidente, che si dichiara sempre paladino dei diritti umani e colpevole di quanto accade attraverso la chiusura delle frontiere, ma anche i dirigenti del continente africano, che spingono i giovani all'”umiliazione dell’esilio” con cattive politiche. I sindacati chiedono allo Stato e alla Cedeao di mettere fine a tutto ciò, di liberare le vittime in Libia e infliggere ai colpevoli sanzioni all’altezza del crimine. Le stesse richieste sono state avanzate dal Comitato senegalese per i diritti dell’Uomo (Csdh) anche all’Onu, all’Ua, alla comunità internazionale e alla Libia.
Ma a essere più duri nel loro grido di sdegno sono i giornalisti, che puntano l’indice contro chi dovrebbe fare mea culpa. Sempre in Burkina Faso, la redazione di Wakat-Sera se la prende, oltre che con i leaders africani, anche con i ricchi del proprio continente:
«Eppure, un’infima parte della ricchezza finanziaria di questi “grandi” della canzone, del pallone o del microfono, avrebbero potuto creare delle scuole, dei centri di formazione o di apprendimento, in modo da rendere questi fuggiaschi della miseria degli operai e dei campioni dell’auto-impiego. Cosa dire delle “ferme” condanne dell’UA e dell’ONU, sotto il naso di chi si tiene questo mercato vergognoso della tratta negriera e che non ha mai pensato a bandirlo, delle nazioni che la praticano ancora nella più semplice espressione o nelle sue forme mascherate?».
Tornando in Senegal, la giornalista Fatoumata Sow, ha inviato il 19 novembre una lettera aperta alle autorità senegalesi:
«I giovani trattenuti come schiavi in questo Stato membro dell’Unione Africana devono essere liberati. Hanno bisogno di essere aiutati psicologicamente per ritrovare la loro dignità, la loro umanità. Eccellenze, egregi presidenti, tutti gli africani, quelli in Libia come quelli fuori dalla Libia, si sono sentiti presi in giro e umiliati. Si attendono atti forti e non soltanto dichiarazioni di principio, che sono di solito dimenticate».
Ai cittadini africani, le dichiarazioni formali dunque non bastano. E, lungi dallo sterile condannare, propongono iniziative immediate e concrete ai propri dirigenti, come il rimpatrio e la presa in carico dei migranti in Libia e la messa in atto di inchieste miste e internazionali (e non delegata alla Libia), in cui l’Unione Africana sia partecipe.
«…M. Alpha Condé dice che consulterà i suoi 5 vice-presidenti prima di prendere una decisione. Ma per quanto tempo? Durante tutto questo periodo, gli africani continueranno a essere torturati, venduti e rivenduti. È scandaloso! (…) Apprendiamo queste ultime ore che le autorità libiche hanno aperto un’inchiesta. Ma la pressione non dovrebbe arrestarsi qui. Per giunta, è necessaria un’altra inchiesta non comandata da Tripoli. Ma nell’urgenza, cosa si può fare? Iniziare a pensare a strategie per il ritorno di migranti a casa loro. (…). Lo stato libico deve assistere una missione dell’UA per visitare i campi e recensire tutti i migranti. Fatto questo, i nostri dirigenti devono mettere a disposizione dei voli speciali in Libia per tutti gli africani che trovano e riportarli nei loro paesi di origine. Infine, bisogna riflettere a come guarire le loro piaghe fisiche, psicologiche e sociali. Infine, ogni Stato dovrà pensare a far restare i giovani nei loro paesi e realizzare una vasta campagna di comunicazione per sensibilizzare i giovani sui rischi di questo viaggio pericoloso», scrive Noel Sambu su Senenews. Il giornalista, inoltre, si chiede se la timidezza dei leader africani nei confronti dello Stato libico sia dovuto al fatto che per lo meno fino a quando c’era Gheddafi, il contributo della Libia al finanziamento dell’Ua fosse pari al 15% del budjet totale dell’Unione, e gli investimenti in Africa Occidentale fossero numerosi.
Oltre che una presa di coscienza e di responsabilità, gli africani chiedono ai loro leaders iniziative immediate per gli africani attualmente in Libia, ma anche politiche più impegnative e a lungo termine per diminuire la pressione emigratoria dei giovani. Cosa che sarebbe meno difficile, per i governi africani, se i soldi italiani ed europei fossero più orientati a sostenerli in questo piuttosto che a una politica di esternalizzazione delle frontiere finanziando la Libia e altri paesi saheliani per bloccare, a modo loro, i migranti di transito. L’appuntamento è a fine mese al vertice Europa-Africa.