Zimbabwe – Da Mugabe a Mnangagwa: il dinosauro se ne va ma rimane il coccodrillo. E il popolo?
Robert Mugabe si è infine dimesso ieri dopo 38 anni di regime in Zimbabwe, in seguito all’intervento dei militari e dei quadri sel suo stesso partito. Ora però, se si vuole democrazia, sta al popolo farsi sentire.
E finalmente un altro dittatore d’Africa esce di scena: quello più ostinato, che fino alla fine non voleva mollare salvo poi, senza più il sostegno dei suoi, dei militari e del suo partito, arrendersi all’evidenza dei fatti.
A 93 anni, Robert Mugabe poteva vantarsi di essere due cose: il presidente più anziano del mondo e l’unico rimasto alla guida del paese dalla sua indipendenza, avvenuta piuttosto tardi, nel 1980. Purtroppo, nonostante i suoi 37 anni di regno, non certo pochi, il primato della longevità tra i tiranni dell’Africa Subsahariana non spetta comunque a lui. A vincerlo fu Ali Bongo in Gabon, con un governo di 42 anni (1967-2009), a cui è succeduto il figlio Omar Bongo: da 50 anni, una sola dinastia regna nel Paese, così come succede in Togo con la famiglia Eyadema e in Guinea Equatoriale con gli Nguema, alla guida da 49 anni. A superare anche se di poco con 38 anni di governo Mugabe c’è stato Etienne Eyadema (1967-2005) in Togo; a uguagliarlo, invece, ci ha pensato Yoweri Museveni (1979-2016) in Uganda.
In questi paesi, uomini e donne di quasi quarant’anni non hanno visto che un solo presidente sul trono; quelli di 50 non hanno mai conosciuto che una famiglia al potere, e non hanno mai vissuto in democrazia. I ventenni di un’epoca post 2000 ne hanno più che sete.
Nella strada verso la democrazia, o comunque almeno verso lo sbarazzarsi di dittatori e regimi autoritari, di strada ce n’è ancora da fare in Africa. Ma pian piano, qualcosa è stato fatto e si sta facendo. Nel 2014, è stato spazzato via dopo 27 anni di governo Blaise Campaoré, poi Museveni in Uganda e un anno fa Yahya Jammeh è stato costretto a lasciare in pace il Gambia dopo 22 anni di eccentrica e capricciosa dittatura.
Tuttavia, in questi paesi il popolo aveva giocato un suo ruolo, più o meno importante. Se in Burkina c’è stato un vero sollevamento popolare, in Gambia e Uganda per lo meno la popolazione ha affrontato il loro nemico alle urne. In Zimbabwe invece, ai vertici hanno fatto tutto da soli. A far precipitare la situazione è stata la moglie stessa di Robert, Grace Mugabe, di 52 anni. All’avvicinarsi dell’appuntamento elettorale del 2018, avida di potere ma ancor più forse desiderosa di salvare i suoi immensi conti in banca, aveva fatto silurare il vice-presidente Emmerson Mnangagwa, soprannominato il Coccodrillo, che sembrava essere l’erede naturale al potere, e che intanto se n’era scappato all’estero. L’uomo è ritornato settimana scorsa in patria dopo che i militari, infastiditi dall’idea di una successione della first lady, avevano effettuato una sorta di colpo di stato non dichiarato. La dirigenza del partito di Robert, Grace e di Mnangawa, (Zanu-Pn) ha estromesso Grace dal partito e Robert dalla sua guida, e dopo i tentativi di quest’ultimo di resistere e imporsi, ha dovuto cedere ieri.
Per lo meno e per fortuna, la transizione sta avvenendo senza spargimenti di sangue. E il popolo, giustamente, festeggia. Tuttavia, se veramente ha a cuore il suo futuro, non deve limitarsi a questo. Se la popolazione in Zimbabwe non ha giocato la sua parte finora, è proprio in questo momento che dovrà farlo: a differenza di quanto successo in Burkina e in Gambia, dove l’alternativa al dittatore erano membri dell’opposizione che promettevano democrazia, Mnangawa, 75 anni, era il delfino di Mugabe, suo compagno di combattimento per 54 anni, dai tempi della lotta anti-coloniale. Quest’uomo é qualcuno che si è fatto il carcere prima, visto morire i suoi compagni, eseguito il lavoro sporco dell’era Mugabe come lo sterminio di migliaia di ndembele nel 1983, quando era Ministro della Sicurezza di Stato. Frustrato più volte nella sua carriera politica, inizia ad avere le sue gratificazioni solo nel 2014, quando venne nominato vice-presidente.
Nell’editoriale del quotidiano zimbabwese di oggi, The Herald, si assicura che le nuove generazioni che erano in piazza in questi giorni ad Harare non torneranno al silenzio, che erano per lo più ventenni e trentenni desiderosi di cambiamento, che le cose dovranno cambiare e per sempre. Che in piazza non c’erano cartelli politici, fazioni, foto di leader, etnie diverse, ma cittadini uniti con il solo simbolo della bandiera nazionale, a comunicare la voglia di sentirsi finalmente tutti uguali e zimbabwesi. Voglia di spirito nazionale e democrazia, insomma. E magari, già che ci siamo, anche di iniziare a guadagnare punti nella classifica dell’indice di sviluppo umano (154 su 188 Paesi) e di povertà (il 21,4% della popolazione vive sotto la soglia della povertà, dati Onu): ma saranno in grado questi giovani e il resto della popolazione a farsi ascoltare dai militari, dal futuro presidente e da quanti, anche a livello internazionale, hanno interessi in ballo? Questa, ora, rappresenta la vera sfida per il paese.
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